Con l’espressione hate speech oggi indichiamo una tipologia di comunicazione mirata a diffondere odio e pregiudizi. Un fenomeno particolarmente sviluppato sulle piattaforme digitali, dove più hai visibilità, più sei esposto al rischio. Commenti accaniti si moltiplicano sui profili personali degli utenti, protetti dalla distanza virtuale che il social network impone. Ma come si è configurato questo fenomeno? E soprattutto, l’odio che ne scaturisce potrebbe creare dei contenuti oppure è fine a se stesso?
ALLE RADICI DELL’HATING
L’invettiva è parte del linguaggio ed esiste da sempre, basti pensare all’utilizzo che se ne faceva in tempi meno recenti, quando Cicerone la convertiva in strumento politico. Con Le Filippiche, l’oratore si scagliava contro Marco Antonio dipingendolo pubblicamente nei suoi tratti più cupi. I discorsi sull’odio non sono quindi figli di Internet, ma è proprio lì che trovano un canale perfetto per la proliferazione e per una inquietante forma di aggregazione. Infatti la critica pubblica produce un effetto che viene chiamato “echo chamber”, effetto per cui altri utenti, sulla scia di un commento negativo, di un pregiudizio o di un insulto, formano una specie di coalizione basandosi su quel pensiero condiviso e scagliandosi numerosi contro un unico bersaglio. Dunque odio che genera altro odio, ma potrebbe generare anche arte? La filosofa Judith Butler attribuisce a questo genere di discorsi una certa valenza artistica: l’insulto crea uno spazio in cui chi lo subisce inizia ad esistere socialmente.
SE CICERONE AVESSE UN PROFILO SOCIAL
Oggi ci sembra che questo fenomeno sia particolarmente dilagante, tanto da creare la figura dell’hater, che trova uno spazio pubblico per l’azione sul social network, appellandosi alla libertà di espressione. È vero infatti che questo fenomeno è sempre esistito ma è pur vero che nuovi strumenti e modalità ne hanno modificato le caratteristiche. Non serve più essere oratori per innescare insulti e provocare reazioni pubbliche. Che commenti scriverebbe oggi Cicerone se avesse un profilo Facebook e dovesse commentare uno stato di Marco Antonio? Troverebbe sicuramente degli alleati virtuali con cui stilare le nuove Filippiche versione 2.0.
Non tutte le critiche vengono per nuocere, mi verrebbe da pensare. Il social network però abbatte le barriere di accesso, chiunque può diventare un hater o diventare un bersaglio. Non si ricorre più ad una ars oratoria per poter esporre la propria opinione, e quando l’espressione di questa non ha più limiti o restrizioni, è più facile che sconfini in commenti vuoti, privi di contenuti ma carichi di odio.
UNA COMUNITÀ DI ODIATORI
La piattaforma digitale crea distanza tra chi insulta e chi viene insultato, questa sorta di anonimato, rende l’hating sempre più accessibile e fruibile. Ma è anche vero che l’odio generato non rimane solamente virtuale bensì produce un sentimento reale, specialmente per chi lo subisce. In alcuni casi queste azioni si concretizzano in gesti più o meno violenti: prendiamo ad esempio il commento del consigliere comunale leghista contro Emma Marrone, oppure le dinamiche semi-violente che si sono a volte create durante alcuni concerti di personaggi tanto amati quanto odiati come Sfera Ebbasta e Young Signorino, tra l’artista e il pubblico stesso.
La fondamentale differenza con l’hating online risiede nel fatto che sul web il fenomeno produce una trasmissione su larga scala, tanto da arrivare a formare anche delle community dove gli haters fondano la loro associazione proprio su un senso comune di odio verso qualcuno, a volte anche quasi involontariamente. Esistono oggi gruppi su Facebook, nati con l’intento di riunire persone accomunate dagli stessi interessi musicali, con lo scopo quindi di aggiornarsi su eventi e organizzarsi per concerti, scambiare commenti e opinioni, e ridotti a basare la comunicazione all’unica modalità dell’insulto contro gli stessi cantanti e addirittura predisponendo gli utenti gli uni contro gli altri.
L’hating online è quindi visibile sui profili di persone più o meno pubbliche, ma anche su pagine e gruppi, dove nasce a tal proposito la figura del moderatore: una persona che si occupa di limare i contenuti nascondendo anche all’occorrenza i commenti troppo feroci o pericolosi. C’è chi sostiene però che questa sorta di censura possa in realtà solamente fomentare gli animi agitati e provocare effetti contrari. La soluzione potrebbe forse essere quella di lasciare circolare queste parole affinché trovino un nuovo senso verso una sottospecie di ready-made dadaista?
Oggi il fenomeno risulta poco arginabile e la questione che vi ruota intorno è proprio a proposito dei confini tra censura e libertà di espressione: quando è che la critica smette di essere opinione libera e diventa un messaggio pericoloso per i suoi echi ed effetti sociali?